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Referendum 2025: critiche, bufale e verità nascoste di un dibattito che non decolla

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A pochi giorni dal referendum dell’8 e 9 giugno il dibattito pubblico stenta a decollare. Il silenzio della maggioranza politica, che ha scelto la via dell’astensione, e la disinformazione diffusa alimentano un clima di confusione. Eppure i temi in gioco toccano il cuore del lavoro e della cittadinanza in Italia. Quali sono le principali obiezioni contro il referendum? Uno degli argomenti più ricorrenti è che il problema non sia la tutela contro i licenziamenti, ma salari bassi, scarsa produttività, costo del lavoro. Il legame tra licenziamento ingiustificato e salari, però, è tutt’altro che secondario. Meno tutele significa meno potere contrattuale per i lavoratori. Se il posto è precario e il rischio di licenziamento è alto, chi lavora è più ricattabile, meno libero di chiedere aumenti o migliori condizioni.


Referendum 8 e 9 giugno, italiani al voto: tutto quello che c’è da sapere


“Il costo del lavoro è troppo alto” ma i dati dicono il contrario. Si sente spesso dire che abbassare il costo del lavoro porterebbe ad aumenti salariali. Ma i numeri raccontano un’altra storia. Secondo l’ISTAT, tra il 2007 e il 2020 i contributi sociali a carico delle imprese sono scesi del 4%, anche grazie a decontribuzioni pubbliche. Eppure, nello stesso periodo, la retribuzione netta dei lavoratori è calata del 10%. I benefici fiscali non si sono tradotti in stipendi più alti, ma in profitti aziendali più ampi. Il problema non è solo economico, ma di potere negoziale: senza diritti e senza tutele, i lavoratori restano deboli.

Jobs Act e reintegro: un’altra obiezione sostiene che il Jobs Act garantisca ai licenziati indennizzi più alti rispetto all’articolo 18. Ma basta leggere le norme per capire che non è così. Il decreto legislativo 23/2015 (che il referendum mira ad abrogare) prevedeva un’indennità automatica, poi corretta fino a un massimo di 36 mensilità. L’articolo 18 modificato dalla legge Fornero prevede invece: reintegro in caso di licenziamento illegittimo (non solo discriminatorio, ma anche sproporzionato), più un’indennità fino a 24 mensilità. E se il lavoratore rinuncia al reintegro, può chiedere 15 mensilità aggiuntive. Totale: fino a 39 mensilità, contro le 36 del Jobs Act. E con un effetto deterrente molto più forte per il datore di lavoro. Il decreto è stato più volte corretto dalla Corte Costituzionale, ma questo non lo rende automaticamente giusto o costituzionale. Alcune norme restano in vigore solo perché mai contestate in sede giudiziaria. E la Corte non può legiferare: può solo correggere ciò che è palesemente incostituzionale. Un vero cambiamento può venire solo dalla politica. E se il Parlamento non agisce, un referendum può essere uno strumento efficace per intervenire.

Un altro timore diffuso è che un sì al referendum creerebbe un vuoto normativo. Ma perché un quesito sia ammissibile, deve avere un effetto giuridico chiaro e autosufficiente. Non servono nuove leggi per tappare buchi. Si torna semplicemente al quadro precedente, che resta valido. E non si cancella tutto il Jobs Act: il referendum colpisce solo il decreto 23/2015. Restano in vigore NASpI, DIS-COLL, norme sul lavoro agile, dimissioni telematiche e collaborazioni coordinate. Si dice che il Jobs Act abbia aumentato l’occupazione. Ma anche qui i dati vanno letti con attenzione. Per l’ISTAT, è “occupato” chi ha lavorato almeno un’ora a settimana: un dato che dice poco sulla qualità del lavoro.  L’occupazione dipende da fattori economici generali, non solo da leggi sul lavoro. Le assunzioni con tutele crescenti furono incentivate da sgravi fiscali: il boom fu in gran parte artificiale.

Altro bersaglio del referendum è la cittadinanza. Il quesito chiede solo di ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza per presentare la domanda, senza toccare gli altri criteri. Non è un “regalo”, ma un passo verso una maggiore equità per chi vive, lavora e contribuisce in Italia da anni. La retorica del “voto rubato” agli italiani è infondata: ogni quesito ha la sua scheda e ognuno può votare come preferisce. E non si può ignorare che cittadinanza e lavoro siano strettamente legati. Migliaia di lavoratori stranieri vivono in precarietà, con il permesso di soggiorno legato al contratto. Più tutele per loro, significa più tutele per tutti.

Infine, il nodo più delicato: il quorum. Alcuni partiti, soprattutto a destra, stanno spingendo per l’astensione. Un modo per sabotare il voto senza affrontare il merito. È una strategia già vista: Craxi, i DS, Renzi… oggi è il turno di La Russa. Ma se davvero si crede nella sovranità popolare, bisognerebbe incoraggiare il voto, non impedirlo. E chi oggi invita all’astensione chiede ai propri elettori di rinunciare a un diritto per evitare che altri possano esercitarlo. Ma non è una conta tra partiti, è una scelta di merito. Andare a votare l’8 e 9 giugno non significa schierarsi ma esprimersi su leggi concrete, che riguardano diritti, lavoro, cittadinanza.. Il referendum non è una resa dei conti politica, uno strumento costituzionale che appartiene a tutti. Votare significa affermare che la democrazia non si subisce, si esercita.

 

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